La Storia

Santa Margherita Ligure: La Sagra di San Giuseppe, sorgente di vita nuova, fuoco, canti e frittelle

Anticamente, il mese di Marzo, come dice lo stesso nome, era dedicato a Marte, al quale, in suo onore, si tenevano feste. Ma il Marte dell’Equinozio di Primavera non è propriamente il dio bellicoso delle battaglie, ma quello pacifico della fecondazione. Per questo la Primavera, detta anche stagione dell’amore, vuol essere un invito a “far l’amore e non la guerra”, per far sì che le forze maschili possano congiungersi a quelle femminili.

Tutto ciò, ovviamente, sta scritto nel linguaggio simbolico ed esoterico. Anche nella pratica, però, la Primavera è proprio la stagione degli amori, sia per le piante, sia per gli animali, sia per l’uomo.

In Liguria, a Santa Margherita Ligure, più precisamente nel quartiere di Ghiaia, la Primavera, tra canti, fuoco ed effluvi di olio fritto, coincide con la Festa di San Giuseppe, un Santo che fu venerato dai genovesi fin dai secoli 1500 e 1600 e addirittura proclamato come uno dei “protettori” della città di Genova.

“A San Gioxeppe, se ti peu, impi a poela de frisceu…” (“A San Giuseppe, se puoi, riempi la padella di frittelle…”) sembra abbiano decretato gli abitanti dell’antica “Pescino”.

Così in questa fetta di terra ligure, la festa di San Giuseppe nasce all’insegna del fritto e… alla salute del nostro fegato, tra “frixeu” salati e frittelle dolci con l’uvetta, accompagnate da un buon vinello (il “bianco di Portofino”) e da un tradizionale fuoco, l’ormai famosa “luminea de San Gioxeppe”, vanto folcloristico della Città.

Nella cultura tradizionale, da sempre, il fuoco segna i momenti di passaggio del ciclo dell’anno, come la fine della brutta stagione e delle fredde ed umide giornate invernali.

L’analisi delle tradizioni legate al fuoco rivela quanto sia lontana nel tempo la loro origine e quanto queste pratiche siano diffuse un po’ ovunque nei paesi dell’Europa occidentale.

L’uso rituale del fuoco, del resto, risale ad un periodo che precede la diffusione della religione cristiana, ai riti celtici delle cadenze calendariali vicine ai due solstizi.

In una sorta di “magia”, anche le radici della “luminea di San Giuseppe”, con lo sfavillio delle fiamme interpretate come segnale di auspicio, offrono una possibile chiave di lettura di antiche tradizioni.

Che siano gesti tesi a scacciare gli spiriti maligni o che facciano parte di un rito di iniziazione, resta il fatto che la gente riconosce, nel segno di una storia condivisa, una valenza simbolica, augurale e scaramantica.

E se gli antichi filosofi facevano, proprio del fuoco, un oggetto di venerazione rappresentandolo attraverso un dio, nello scanzonato mondo degli inizi di questo nostro Terzo Millennio, il falò continua a mantenere qualcosa della sua vecchia magia. Se non altro rappresenta il centro attorno al quale si raccoglie una comunità che ripropone un rito di passaggio.

Un fuoco di gioia, che scaccia le tenebre e l’inverno, su cui ardono due fantocci, in una sorta di “par condicio” tra i sessi, maschio e femmina, “Tunin” e “Manena”, in segno di propiziazione, quasi ad allontanare il male, per salutare l’arrivo della nuova stagione.

Ritorna così anche il significato più autentico del mese di marzo, legato alla congiunzione e dell’amore.

Ma per propiziare un anno fortunato, secondo una tradizione un po’ maschilista, a bruciar prima dovrà essere la donna. Se accadesse il contrario, l’auspicio potrebbe rivelarsi non propriamente positivo.

In un magico sortilegio, il fuoco, inteso come simbolo di forza e di vigore dopo la consunzione dell’inverno, rianimerà la natura a vita nuova.

Poi tutto tornerà nel vortice del tempo, ma il falò di San Giuseppe continuerà, ancora per giorni, a scaldare metaforicamente il nostro cuore.

Una Festa, quella della Primavera, cadenzata da due momenti distinti: quello burlesco e saturnale, basato sulla baldoria ancora un po’ carnevalesca; e un altro ritualistico, a metà tra il sacro e il profano, in un misto di antichissime liturgie e di tradizioni celtiche (e i liguri, come sappiamo, furono un popolo celtico).

E poi ancora la musica, quella della Banda dei marinai e dei pescatori di Ghiaia, con le loro divise da “Capitan Trinchetto” e i loro strumenti chiassosi da “rumpi e streppa”, in un festoso corteo goliardico che trascinerà la gente per le vie della Città, a salutare una stagione che potrà essere foriera di gioia, di bellezza e di ricchezza. Il tutto cadenzato dalla concretezza ligure, quella che sa guardare alla terra e al mare come “sorgenti di vita”.